Genova – Nel cuore antico di Damasco, quartiere Bab Sharki, il terrorismo è presenza quotidiana, l’Is nel Paese in guerra non è un fantasma nero sul web ma si fa sentire col suono delle bombe, è il vicino di casa con cui convivere. Ha il volto di chi irrompe a scuola con le armi in pugno e se ne va dopo aver ucciso quattro bambini.
«La red line del fronte è a circa un chilometro dalle nostre case, certe notti si sente la terra tremare come quando è in corso un terremoto», racconta Armash Nalbandian, 41 anni, vescovo armeno ortodosso di Damasco che oggi pomeriggio sarà a Genova per una conferenza con Sant’Egidio (“A 100 anni dal genocidio degli armeni, una testimonianza dalla Siria in guerra”, piazza Nunziata 4). E nelle sue parole il terrore del nome di Dio diventa realtà concreta.
«No, credo che ci sia una grande mancanza di informazione su questa crisi, una guerra messa in atto da gruppi estremisti radicali che non hanno nulla a che fare con l’Islam col quale abbiamo vissuto pacificamente per anni: siamo diventati il campo di battaglia di un conflitto globale che coinvolge interessi politici legati al petrolio»,
«Al Qaida è una realtà globale, nel nostro paese si concentra invece la presenza dell’Is e nelle zone controllate con le armi dallo Stato islamico i cristiani non possono vivere: ma i militanti armati non hanno niente a che fare col nome di Dio».
«È così, la primavera araba aveva iniziato un processo di democratizzazione e civilizzazione della società e noi avevamo sperato che l’Occidente aiutasse questo processo, ma non certo armando il terroristi».
«Ci sono cristiani che proteggono le moschee e musulmani che hanno protetto i cristiani nelle loro case quando sono stati minacciati. E ci sono locali dove non si vende il vino perché la maggior parte dei clienti è musulmana e altri dove ordinare una bottiglia è normale: ma non c’è nulla di strano in questo, il problema non è il rapporto tra i fedeli di religioni diverse».