Razzisti ce ne sono stati. Ce ne sono. E ce ne saranno. Ma non è questo un motivo sufficiente per cedere agli estremisti del realismo, quelli che invitano alla presa d’atto dei fenomeni che ci accadono intorno per poi finire con l’adeguarvisi. O che minimizzano. No. Una presa di posizione razzista va combattuta: primo, perché ci danneggia tutti; secondo, perché lasciarla passare equivale a scivolare un po’ più giù, per poi ritrovarsi a un tratto nell’abisso. Dentro al quale non si finisce in un giorno, ma con lenti smottamenti quotidiani.
L’ultimo scivolamento c’è stato l’altroieri in una delle tante pagine cittadine di cui è pieno facebook. Alla notizia di un uomo nato in Albania che aveva tentato il suicidio a Foligno e si trovava in gravissime condizioni, un autoctono ha commentato: «Uno di meno». Un altro gli ha risposto costernato: «Sì, ma non è morto». Si tratta di persone che probabilmente sono sinceramente convinte di non essere razziste. Perché, come tanti, ritengono che razzista è solo chi gasa gli ebrei o dà fuoco ai neri, e loro quelle cose non le hanno mai fatte né si sognano di farle. Ma quelle prese di posizione lì, quelle parole brutali, contribuiscono esattamente a scivolare dentro l’abisso. Che si prepara di giorno in giorno, con un graduale cambiamento di clima.
Un cambiamento di clima che è sicuramente assecondato anche dalla crisi che morde e spinge i più inconsapevoli a prendersela con chi sta peggio, invece che a cercare le ragioni reali del malessere e tentare di combatterle. Una lenta modificazione che passa per gli strepiti che si alzano contro “gli immigrati che ci rubano le case popolari”; per le richieste di modifica dell’assegnazione di quegli alloggi (a favore degli italiani, ovvio) da parte di politici piccoli piccoli alla ricerca di un successo facile quanto vuoto. Uno scivolamento di cui è sintomo la criminalizzazione dei mendicanti, come se fosse di colpo diventato divertente chiedere l’elemosina.
Combattere questa deriva non è una questione di buoni sentimenti. Perché inscritta in quelle tre parole “uno-di-meno” c’è una clamorosa abdicazione di umanità, che riguarda chi quelle parole le dice o le scrive. Se si può arrivare a comprendere l’augurio di una disavventura in un momento di rabbia, qui si è al di là; qui ci si compiace di una cosa brutta accaduta, che ci è di fronte. Ci si rallegra per chi soffre. L’umanità, o buona parte di essa, è andata smarrita. Significa che è in atto una sorta di auto-cannibalizzazione di noi stessi.
Ma c’è di più. Perché chi contribuisce a creare lo spartiacque tra “noi” e “loro” sulla base claudicante dell’appartenenza etnica, chi vuole i servizi solo per “noi”, chi si riempie la bocca di “prima gli italiani”, sta esattamente lavorando per il contrario di quello che dice di desiderare: la sicurezza, il benessere della comunità. Perché una comunità è sicura quando tutti quelli che ci stanno dentro la sentono propria. Se ci si vede chiudere nel recinto del “loro”, dei dimenticati, delle vittime di questa sorta di apartheid light, non si può volere il bene della comunità, la si minaccerà, si punterà a rovesciarla. I pericoli per la sicurezza insomma, sono direttamente proporzionali alla grandezza dello spartiacque che si frappone tra “noi” e “loro”. Quanto più le acque si mescolano, quanto più scompariranno i “noi” e i “loro”, tanto più saremo sicuri, tutti.
Per questo occorrerebbe chiedere più case popolari per tutti quelli che ne hanno bisogno, invece che contendersi a morsi le insufficienti che ci sono. Per questo occorrerebbe dare una possibilità di riscatto a chi mendica. Per questo occorrerebbe evitare strumentalizzazioni becere e dannose. Per questo il razzismo, anche solo quello a parole, ci danneggia tutti. E va combattuto alla radice.
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