Noi, gli italiani d’Albania

1611
0

Come tutti i suoi connazionali, anche Luca deve ricordarsi di rinnovare il permesso di soggiorno. «Altrimenti ti rimandano a casa». E mima con le mani il tipico gesto. «Pensi come sono cambiate le cose: una volta erano gli albanesi a fare la fila nelle nostre questure per rinnovare i documenti. Ora siamo noi».

TIRANA (Albania) – «Sa qual è stata la prima parola di mio figlio? “Babi”, vuol dire papà in albanese. Forse è un segno, ma come faccio a tornare in Italia se il bimbo è nato e cresciuto qui?». Luca Falanga è seduto in un bar di Rruga e Durresit, un vialone che parte dal cuore di Tirana, mentre tutt’intorno è un fiorire di cliniche dentarie italiane, agenzie turistiche che sponsorizzano una settimana di vacanza a Roma, Firenze e Venezia. Ha trentadue anni, è un perito informatico e commerciale di Galbiate, in provincia di Lecco, e nella capitale albanese lavora in un call center gestito da albanesi ma al servizio di aziende italiane.

La carica dei 19 mila

Luca è uno dei tanti, tantissimi, che negli anni hanno lasciato l’Italia e si sono trasferiti al di là dell’Adriatico. Chi per avventura. Chi per amore. Chi, soprattutto, per necessità. «Nel nostro Paese vivono e lavorano 19 mila italiani», calcola Erion Veliaj, ministro albanese del Benessere sociale e della gioventù nel governo socialista guidato da Edi Rama. Numeri che, al netto degli imprenditori, dei rappresentanti diplomatici e degli studenti iscritti ai corsi di Medicina all’Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio, indicano in 15-16 mila quelli che hanno un contratto di lavoro dipendente. E un permesso di soggiorno. Si trovano soprattutto a Tirana. Gli altri sono distribuiti tra Scutari, Durazzo, Valona. «Quando sono arrivato nel 2004 qui di connazionali ce n’erano davvero pochi», ricorda Pasquale Fiore, 63enne barese. «Ora ci sono giorni in cui mi sembra di stare in Italia e non a Tirana». Fiore è cuoco al Taiwan, che è una mega-struttura nel cuore della capitale dove si trovano un ristorante, un centro commerciale, diversi bar.

Da Lecco nel “Paese delle aquile”

E com’è l’approccio con l’Albania? Luca Falanga sorride. «In questa città è un gran caos, dal traffico agli uffici pubblici, passando per gli ospedali. Ma è un posto con margini di crescita pazzeschi». E la Lombardia? «È smarrita. Nel Lecchese le aziende che hanno caratterizzato la mia infanzia hanno chiuso una dopo l’altra. Ho perso i miei punti di riferimento». Così, senza lavoro, s’è trasferito a Tirana. È diventato papà. «Qui anche se sei precario, ma vali, il lavoro non ti mancherà mai. E con 600 mila lek (circa 400 euro, ndr) vivi bene». Come tutti i suoi connazionali, anche Luca deve ricordarsi di rinnovare il permesso di soggiorno. «Altrimenti ti rimandano a casa». E mima con le mani il tipico gesto. «Pensi come sono cambiate le cose: una volta erano gli albanesi a fare la fila nelle nostre questure per rinnovare i documenti. Ora siamo noi».

La nuova vita della famiglia friulana

La sanità da queste parti resta un problema, secondo Falanga. «Senza soldi non vai da nessuna parte. Per fortuna ci sono gli ospedali privati, che però costano un sacco». A Tirana è un fiorire di cliniche italiane. Ne sanno qualcosa Stefano Turchetto e Laura Redivo. Marito e moglie, 38 anni lui, 37 lei, hanno due figli e arrivano da Gradisca d’Isonzo, in Friuli. In Albania lavorano come medici internisti in una struttura gestita da un altro italiano, Luca Mocenni, che è il direttore amministrativo. I figli studiano in una scuola internazionale con lezioni in inglese. Come si trova una famiglia migrante? «Io bene, mia moglie un po’ meno», dice Turchetto. «Molti servizi per la famiglia sono di fatto inesistenti». Quello che non manca è il lavoro. «A differenza dell’Italia dove la nostra categoria è bistrattata e non ha futuro». In Albania, invece, «c’è una forte domanda di medici professionisti». Anche se «resiste ancora, in alcuni settori del Paese, l’idea che uomo e donna non siano pari. Lo vedo in ospedale: certi pazienti albanesi pensano che farsi visitare da me sia meglio che farlo con mia moglie, pur essendo noi allo stesso livello. Non lo dicono in faccia, ma lo si intuisce»

Dalla Calabria al call center albanese

Antonio Giorgio Buda ha 23 anni, è di Corigliano Calabro e molti di voi l’avranno sentito proporre un’offerta per una società o l’altra via telefono. Antonio lavora in un call center gestito da alcuni trentenni albanesi. Ha studiato cucina in Francia, poi ha vissuto tra Albano Laziale e Ariccia. È arrivato nel Paese delle aquile quattro anni fa e da tre contatta le famiglie italiane. «Vengo pagato come un albanese, a volte riesco a racimolare 900 euro al mese che è tanto, considerato il costo della vita», calcola lui. «Qui non importa se sei italiano, albanese o altro. Importa solo che tu lavori». L’Italia? «Per me, per ora, è un capitolo chiuso. Non credo di avere un futuro. Ma se le cose dovessero cambiare ovvio che ci torno, è il mio Paese». Soprattutto perché, confessa, «mi manca la schiacciata calabrese. Anche se da qualche settimana è arrivata anche qui, in un supermercato italiano. Quando l’ho visto stavo quasi piangendo. Certo, il sapore è diverso e il costo esorbitante: 15 euro al chilo».

Il bar distrutto dal sisma e la fuga dalla burocrazia

C’è anche chi si è letteralmente ricostruito la vita. Come Maurizio Cantalini. Cinquant’anni, viveva all’Aquila dove gestiva un bar-paninoteca nel centro storico. Poi è arrivato il terremoto. Il locale è andato distrutto e, anni dopo, non è riuscito a riaprirlo in città. Così si è trasferito. Prima in Spagna. Poi a Tirana, dallo scorso novembre, dove ha aperto «Vita 99».  «Qui c’è fermento», dice. Mentre i suoi figli, di 11 e 7 anni, nati in Italia e ancora là, giocherellano tra i tavoli. «Parliamo in italiano, c’è poco tempo per imparare l’albanese oltre alle parole solite». Perché ha lasciato l’Italia? «Per le troppe tasse e la troppa burocrazia. Qui hai il 10% di prelievo fiscale e in un’ora puoi aprirti la società pagando 300 euro. Poi hai molte agevolazioni. Il ristorante di Cantalini, «Vita 99», è un omaggio alla città abruzzese. «“Vita” vuol rappresentare la rinascita dell’Aquila. Il numero, il 99, è un elemento simbolo del posto dove sono nato». Certo, anche per lui l’Albania non è il Paese delle meraviglie. «L’arretratezza infrastrutturale resta, l’Europa è ancora lontana e il divario tra i troppo poveri e i troppo ricchi è enorme. Però almeno c’è dinamismo».

Lo chef diventato star della tv

Alessandro Giampietro di anni ne ha 44 ed è di Roma. È arrivato in Albania tre anni e mezzo fa. Nel suo piccolo è diventato una star della tv locale con le trasmissioni di cucina. «Ho fatto 75 puntate su Vizion+ (terza tv privata più seguita del Paese, ndr): qui il “Made in Italy” piace eccome. Non è un caso se oltre alla cucina il marchio Conad ha deciso di aprire decine di supermercati». Giampietro ha iniziato a Durazzo, poi s’è trasferito a Tirana. «Questo è un Paese intraprendente, la gente è molto più pratica, gli manca certo il senso di coordinamento, la progettazione a lungo termine. In quest’ultima noi italiani siamo abbastanza bravi».

L’uomo che ha portato l’aperitivo nella movida

Marco Angelotti, romano 44enne pure lui, vive a Tirana dal 2010. «Mi sono trovato catapultato qui in una realtà ignota», racconta. «Piano piano ho però iniziato a conoscere la città, a prendere i contatti». Due anni dopo aver messo piede nella capitale albanese ha lanciato le sue attività per cambiare la movida tra aperitivi e cucina romana prima con un ristorante a due passi dall’ambasciata italiana, poi con un altro in pieno centro, a pochi metri da piazza Skanderbeg. In Italia? «Non ci sono opportunità». Angelotti non nasconde di aver vissuto qualche settimana da irregolare, con un permesso di soggiorno scaduto. «Ma come sempre qui, basta la giusta conoscenza e l’intoppo si risolve».

Il ristorante nelle Marche, la crisi e l’approdo oltre l’Adriatico

Fabio Crostelli, cuoco di 57 anni, arriva da Ostra (Ancona) via Porto Rico. È in Albania da meno di un anno. Dopo aver chiuso – per crisi – un ristorante nelle Marche. «Poi un amico d’infanzia, da anni in questo Paese, mi chiama e mi fa: “Vieni qui”. Io lo ammetto: non sapevo nemmeno dov’era l’Albania e avevo qualche pregiudizio». Pregiudizi che ora «sono spariti: qui ho trovato affetto, persone stupende, disponibili. Un Paese che ha voglia di fare». Così ha aperto un piccolo ristorante, a due passi dall’Istituto italiano di cultura: pochi tavoli fuori, cucina rigorosamente italiana. Il nome? «“Torcoletto da Fabio”. Lo stesso nome del locale nelle Marche». Non tutto è così bello però. «Quello che non mi piace è che le leggi spesso sono soggettive: dipende da chi le deve applicare. Eppoi non manca la corruzione. Ma le tangenti, come la vita, qui costano decisamente meno», sorride.

Da Torino a Tirana (via Roma)

Nello stesso tavolo è seduto Roberto Cannata. Cinquant’anni, di Torino, tre figli, racconta di essere in Albania «per rimettermi in gioco nel mondo del lavoro. Cosa che in Italia non si può fare» dopo aver lavorato nella ristorazione tra Roma e Viterbo. A Tirana ha anche lui una pizzeria. «Sono rinato qui a Tirana», dice. E anche se – come Crostelli – spiega che «qui le istituzioni sono abbastanza inesperte», calcola che «il Paese viaggia cinque volte più veloce dell’Italia. Tra poco ci raggiungeranno e ci supereranno. E forse se lo meritano».

«Il Paese cresce, chi ha voglia di fare qui è il benvenuto»

«Da qualche settimana cerco soprattutto centralinisti italiani, ormai non bastano gli albanesi che parlano bene la vostra lingua», dice Agron Shehaj, un passato nel Belpaese, ora proprietario di Ids, il più grande call center dell’Albania e uno dei più importanti dei Balcani. Più di seimila dipendenti chiamano ogni giorno le famiglie oltre l’Adriatico per conto delle aziende italiane. «Nella mia società non mancano i vostri connazionali, ma ne vorrei ancora di più: chi cerca lavoro, si faccia avanti. Certo, è Tirana e non Milano o Roma, ma lo stipendio è assicurato e qui si vive decisamente bene».

«Siamo un Paese giovane e ambizioso, quasi una piccola America a due passi da casa», sintetizza il ministro Erion Veliaj nel suo ufficio tutto a tema nazionale con il tavolo e le sedie rossonere. Veliaj snocciola i numeri degli italiani con soddisfazione. Ricorda che questi risultati arrivano soltanto 23 anni dopo la fine della dittatura comunista. Anche se ammette che il tasso di disoccupazione della forza lavoro locale (al 17,7% nel secondo trimestre del 2014) resta comunque alto e bisogna ridurlo di un bel po’. «Però il Paese cresce». Così come gli stipendi. Passati, certifica l’Instat, l’istituto nazionale di statistica, dai 107 euro di media del 2000 ai poco meno di 375 euro del 2013. «Chi ha voglia di lavorare qui è il benvenuto», assicura Veliaj. «Lo dico soprattutto agli italiani, non semplicemente dei vicini, ma da sempre fratelli».

Twitter @leonard_berberi/

Fonte Corriere.it