Albania, nelle ‘case della morte’, dove il Paese delle Aquile ancora non vola

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ngujuar

Nell’Albania alle soglie dell’Europa ci sono famiglie segregate che attendono una terribile vendetta

‘Ngujùar: segregati in casa, chiusi dentro senza mai uscire, condannati a un’esistenza da sepolti vivi. E’ questo il destino di due fratelli albanesi di 13 e 7 anni, Zhef e Marcel, della loro sorellina di 10 anni, Marcela, e della loro mamma Marija, per un ‘debito di sangue’ lasciato dal loro papà, che non c’è più. Vittime della spietata legge del ‘Kanun’, l’antico codice d’onore del Paese delle Aquile, nonostante l’Albania sia a un passo dall’ingresso in Europa. E molti altri, oltre un cancello, una porta, un cortile, sono attesi dal carnefice.

Siamo a Bardhaj, una manciata di casupole sparse nella brulla campagna attorno a Scutari. Albania profonda, quella dell’estremo Nord, culla dell’eroica resistenza agli Ottomani prima, del nazionalismo albanese poi, e patria d’origine del Kanun. E’ un codice che sancisce il diritto consuetudinario tra le ‘genti della montagna’, che vivono da sempre in un contesto estremamente isolato e arretrato rispetto alla sfavillante capitale, Tirana, dove al contrario ogni regola viene infranta dalla modernità, tra ristoranti, tv e social network. Il Kanun doveva essere un deterrente alla giustizia fai da te, in terre isolate dove il potere centrale non arrivava, e invece è diventato una maledizione per centinaia di famiglie che ancora oggi, nonostante l’opposizione dello Stato, si trovano invischiate in queste faide. Centosei omicidi con 83 persone condannate nel periodo 2004-2009, dicono i dati della Procura Generale di Tirana resi noti da organizzaioni umanitarie. Duecento famiglie coinvolte nel 2012 nella sola Scutari, aggiunge la Polizia Criminale. E’ sugli “auto-reclusi”, tuttavia, che i conti sembrano non essere chiari, un argomento che, in società, genera un ovvio imbarazzo. Fanno parte di un orrore arcaico, vite sfortunate di cui meno si parla meglio è. Centosedici persone chiuse in casa e 21 bambini che non vanno a scuola, dicono ancora quei dati, ma per alcune delle maestre incaricate di entrare in quelle stesse case il numero dei piccoli sarebbe molto maggiore, e questo nelle sole zone del Nord.

Una vergogna che sta cancellando in modo indelebile le vite di pochi ma sempre troppo grandi e bambini, questi ultimi poi a cui viene scippata l’ingenuità dell’infanzia. Da quando si alzano dal letto, infatti, ogni mattina, hanno imparato a essere guardinghi. Diffidano di chi si presenta alla porta, di chi li invita fuori, sono pronti a uno scatto improvviso quando si avvicinano a porte e cancelli. Un tempo la ‘presa del sangue’ escludeva donne e minorenni, ma con il tempo l’etica – se così si può chiamare – si è persa e oggi chiunque appartenga alla famiglia di un uomo che ne ha ucciso un altro, non importa se abbia pagato o meno il suo debito con la giustizia, da queste parti si espone alla vendetta del clan a cui apparteneva il morto. E se la vendetta non viene compiuta, grande disonore scende sulla testa di chi se ne trova incaricato dai famigliari. Uno di questi uomini minaccia la vita di Zhef e Marcel, figli maschi dell’assassino (il padre, che era l’obbiettivo della vendetta ma che si è tolto la vita facendo ricadere la faida sui suoi tre discendenti diretti). Aspetta nell’ombra, fuori dal giardino, notte e giorno: in verità potrebbe essere lì sempre o non esserci mai. Ma non si può rischiare. La famiglia della vittima nonostante i 20 anni ormai trascorsi non ha rinunciato alla vendetta, lo ha fatto sapere chiaramente, anzi, ogni tanto si avvicina alla casa minacciando di morte i suoi abitanti. Giusto per tenere vivo il terrore, per schiacciare ogni speranza di una vita normale, per pregustare la vendetta. Non crediate che poi l’orrore non si materializzi, che alla fine tutto si risolva nella già terribile violenza piscologica della reclusione e della paura.

Un caso emblematico, che fece il giro del mondo, avvenne nel 1993, quando Ndue Zefi, operaio di 57 anni, dopo 12 anni da recluso, decise di uscire di casa: venne falciato da una raffica di kalashnikov. L’uomo non era indicato come responsabile di nessun delitto, ma il Kanun è implacabile e indica fra le vittime designate della vendetta tutti i parenti maschi dell’assassino, senza distinzione. Questa la stroria: nel 1993 un ragazzino appartenente alla famiglia di Ndue Zefi venne ucciso da un parente di Pjeter Marku, 53 anni, ora in carcere per quel delitto. La famiglia Zefi dichiarò aperta la faida con la famiglia Marku e negli anni successivi due fratelli di Pjeter furono uccisi per vendicare la morte dell’adolescente. Nel tragico gioco a catena della vendetta, toccava ora ai Marku rispondere al sangue con il sangue. Tutti gli uomini della famiglia Zefi si erano rifugiati all’estero, oppure vivevano chiusi in casa, come faceva Ndue. E infatti Ndue Zefi è riuscito a sfuggire alla morte per 12 anni. Fino a quel giorno. Il suo assassino, Pjeter Marku, venne rintracciato dagli agenti nella sua casa, dove si era rinchiuso per sottrarsi alla vendetta, pronto al suo turno nel ruolo di ‘segregato’. Non ebbe problemi ad ammettere il delitto. Zhef, Marcel e Marcela sono cresciuti con queste storie come noi con l’uomo nero. Ma il loro Barbablù, a differenza di quello dei nostri figli, è dannatamente reale e vicino. Non hanno mai visto il paese, non escono mai, proprio per non commettere quell’errore. Forse si chiedono perché sia toccato loro questo destino, ma questa e la loro vita e non ne hanno mai conosciuta un’altra. Vivono nel cortile polveroso e davanti alla tv. Non sono mai andati a scuola. Non avranno fidanzatini e fidanzatine. Qualche amico viene a trovarli a casa, per tirare due calci a un pallone, una maestra arriva tre volte a settimana mandata dallo Stato.

Eppure i sogni dei bambini non si spengono, non si fermano sull’uscio di una casa o dentro un destino imprigionato, strappano ogni laccio che li vuole trattenere. “Da grande voglio fare il giudice”, dicono all’unisono sia Marcel sia Marcela. Un desiderio che stupisce, forse proprio a voler riparare quei torti che li inchiodano in pochi metri quadrati di libertà. Zhef ne ha uno ancora più colorato: “Io voglio diventare un calciatore – dice esplodendo in un sorriso – e il mio preferito è El Shaarawi”. Almeno con la fantasia, quello sì, Zhef continua a correre libero, con un pallone ai piedi, anche se forse non vedrà mai un campo da calcio. ANSA