È una tendenza in crescita negli ultimi anni che c’entra con la crescita economica albanese e il ristagno italiano, ma anche con le tante contiguità tra i due paesi
L’equivalente albanese dell’Istat, che si chiama Instat, tiene d’occhio da qualche anno una nuova tendenza: i giovani albanesi cresciuti in Italia che decidono di tornare nel paese d’origine. È un andamento seguito e conosciuto da Arber Agalliu, 29 anni, che è un giornalista albanese fiorentino diventato cittadino italiano dallo scorso autunno con la procedura dei dieci anni di permanenza: «è ancora la stessa legge 91 del 1992 con cui hanno preso la cittadinanza i miei genitori, ti rendi conto?», dice. È in Italia dal 1998, arrivato bambino con la cosiddetta “seconda ondata” di immigrazione albanese, ed è quindi in Italia da quasi vent’anni. È stato rappresentante della “Rete Albanesi in Toscana” e fa appunto il giornalista. Dice che in questi ultimi dieci anni sono rientrati in Albania dall’Italia 34mila albanesi. È vero che l’Albania ha goduto negli ultimi anni di una certa stabilità politica? «Sì, e anche la minacciata crisi di governo delle ultime settimane» – quella che ha fatto slittare il voto per le elezioni parlamentari e presidenziali almeno fino al 16 luglio – «in realtà è una falsa crisi, una cosa che se sei appassionato di politica europea, come me, ti sembra un po’… “all’albanese”».
Pur essendo l’immigrazione albanese una delle più antiche del nostro paese (una importante comunità albanese cristiana si insediò in Sicilia nel XV secolo, fuggendo dall’invasione turca), i picchi di arrivi si sono registrati nel 1991 e nel 1998, con le immagini indimenticabili delle grosse navi mercantili sovraccariche di uomini che partivano da Durazzo per arrivare in Puglia (quella dell’estate del 1991 fu la prima ondata del suo genere in Italia, e talmente forte da invertire completamente la tendenza della popolazione albanese: dalla crescita nella seconda metà degli anni Ottanta, a una crescita negativa fra il 1989 e il 2001), e la storia della colossale truffa bancaria del 1997.
Oggi gli albanesi in Italia sono intorno al mezzo milione, la seconda comunità straniera in Italia dopo quella romena, e l’anno in cui sono stati più numerosi è stato il 2013. Una differenza di rilievo nel tipo di arrivi sta più che altro nel fatto che a migrare oggi sono anche le donne. Nel misurare il flusso migratorio verso l’Italia, però, sia gli istituti di statistica italiani che quelli albanesi notano da qualche anno questa tendenza inaspettata, quella dei giovani che dall’Italia tornano a vivere in Albania. In Italia questo si misura con la cancellazione della residenza da parte di albanesi con cittadinanza italiana, registrata nel Bilancio Demografico nazionale: 2mila nel 2013, in crescita del 23 per cento rispetto all’anno precedente, e di nuovo in crescita l’anno successivo. La migrazione di ritorno dall’Italia all’Albania ha subito un’accelerazione a cavallo della crisi finanziaria internazionale del 2008. I dati dell’istituto albanese Instat confermano la tendenza. Se si guardano quelli del 2007 e quelli del 2011, il numero di ritorni registrati in Albania raddoppia, e i rientri sono in aumento ogni anno, in particolare dal 2008 in poi.
Negli ultimi anni, l’Albania sta diffondendo un’immagine imprenditoriale e turistica di sé molto migliorata, nella quale è difficile riconoscere il paese dal quale arrivavano decine di migliaia di giovani uomini che speravano di sfuggire alla povertà, attirati da un’idea televisiva della prosperità italiana non necessariamente corrispondente alla realtà. Ma la disparità di crescita economica fra i due paesi, oggi invertita, e la forte motivazione identitaria e ottimista di questo piccolo “boom” non spiegano tutto. «Da una parte l’Albania ha una crescita evidente», dice Agalliu, «il PIL cresce più o meno dell’8 per cento ogni anno, mentre in Italia cresce dell’1 per cento. Però in Albania la disoccupazione è ancora molto alta, intorno al 16 per cento, decisamente più che in Italia». Il fenomeno del ritorno dei giovani albanesi nel loro paese d’origine è cominciato una decina di anni fa, ma è diventato molto pronunciato dal 2014, un momento in cui, fra l’altro, erano più di 10mila gli studenti albanesi iscritti nelle università italiane. Quell’anno Agalliu scrisse di Armando, un giovane di origine albanese – laureato in Italia con una tesi su un progetto turistico-ricettivo per il lungomare di Orikum, in provincia di Valona – che stava pensando di tornare in Albania: «per me queste storie dimostrano che l’Italia non solo non riesce a tenersi la sua manodopera, ma nemmeno i suoi lavoratori qualificati: i cosiddetti “cervelli in fuga” dall’Italia sono anche quelli delle seconde generazioni».
Per Agalliu, l’incapacità un po’ strutturale dell’Italia di far tesoro delle risorse investite sulle seconde generazioni è abbastanza evidente: «prendi me, sono cresciuto qui, ho studiato qui, l’Italia dovrebbe desiderare di tenermi qui». Non è solo colpa della crisi economica, è anche questione della cultura che avvolge le seconde generazioni e che incide sulle loro scelte: «studi, ti laurei, e oltre a rischiare, per via della crisi, di finire a fare il cameriere con la laurea come i tuoi compagni di origine italiana, vieni anche un po’ discriminato perché hai un nome diverso, quindi hai ancora meno opportunità. Allora cominci a pensare a come far fruttare al meglio la tua dualità, questo tuo essere a cavallo di due culture, di due paesi, di due lingue, e se torni in Albania, lì il tuo nome non attira l’attenzione, e allo stesso tempo sei speciale perché hai studiato all’estero».
Uno dei rapporti Instat che studia esclusivamente le tendenze nella popolazione albanese più giovane, quella fra i 18 e i 29 anni, ha misurato le ragioni per cui gli albanesi rientrano: alcuni per riunirsi ai famigliari, alcuni perché sono convinti di trovare in Albania migliori opportunità d’impiego, ma la ragione più citata è “per aver perso il lavoro che avevano all’estero”. In realtà, nonostante la scolarizzazione in crescita e un generale miglioramento delle condizioni abitative e sanitarie nei paesi e nelle città, secondo i dati del Living Standards Measurement Study (LSMS, 2012), in Albania il 15 per cento dei giovani fra i 15 e i 29 anni vive ancora sotto la soglia di povertà. Non a caso un quinto dei giovani rientrati ha dichiarato all’Instat di avere una ferma intenzione di emigrare di nuovo. Il tipo di migrazione, però, sembra diventato più mobile, una sorta di andirivieni circolare o stagionale, fatto di sei mesi in un posto e sei mesi in un altro. Per Arber Agalliu, non è sorprendente – lui pensa infatti che la prossimità geografica sia fondamentale oggi per comprendere i meccanismi della migrazione albanese: «mi chiedono perché gli albanesi partecipino poco alle feste tradizionali in Italia, quelle che marcano l’identità sul territorio, e io dico che siccome gli albanesi sono una delle comunità immigrate da più tempo in Italia, ormai sono così radicati che non sentono il bisogno di marcare la loro identità. Allo stesso tempo, però, sono molto prossimi alla loro terra d’origine. Se sei indiano, o cinese, la domenica senti proprio il bisogno di stare con le persone che parlano la tua lingua e condividono le tue tradizioni. Ma un albanese, oggi, con 50 euro di volo torna a Tirana, con un volo equivalente a quello di uno studente sardo che rientri dal continente: non sente il bisogno di formare gruppi di riferimento della sua comunità perché in realtà ci torna quando vuole». L’Albania, dove l’italiano è conosciutissimo e familiare, è in questo senso quasi una regione italiana fuori confine.
In Albania, racconta Agalliu, «continuano a crescere le imprese fondate da imprenditori italiani, e se una volta a trasferirsi erano imprese di considerevoli dimensioni, oggi a spostarsi sono anche imprese molto piccole, ditte individuali, artigiani». In questo ecosistema, la freschezza e la dualità delle seconde generazioni vengono apprezzate come un bonus della loro professionalità, e i giovani lo sanno e se ne sentono attratti. «Io mi sento italiano, e forse non potrei riabituarmi ai ritmi di vita dell’Albania, ma non voglio nemmeno rinunciarci», dice Agalliu. «L’attrazione culturale resta, così molti giovani fanno un tentativo. Poi magari poi il lavoro non gli piace, ma non è affatto raro trovare giovani albanesi di seconda generazione che tornano in Albania e trovano subito impiego come team leader nei call center perché parlano italiano. O un saldatore italiano che a Tirana può sia fare il saldatore sia insegnare, perché si porta dietro dall’Italia una cosa che lì non c’è, e di cui l’Albania ha un gran bisogno, una certa cultura del lavoro».
/Marina Petrillo/ilpost.it/