E se ne andrà con la targa di rivelazione pop. Tanto per gradire, Ermal Meta ha già vinto il premio per la miglior cover cantando un brano di Modugno che in qualche modo lo rappresenta: Amara terra mia. Ermal è albanese di Fier, è arrivato in Puglia con i genitori a 13 anni e da allora è diventato lentamente, anche dolorosamente italiano, crescendo sugli stessi binari che indica la canzone di Modugno: amore e amarezza, straniamento e rimpianto.
«Sono cresciuto come sarei cresciuto in Albania, ma la ferita della migrazione mi accompagnerà sempre». Amara terra mia. «Non mi aspettavo un premio del genere, anche perché non è certo uno dei superclassici di Mimmo. In più, ho cambiato la parte finale, quella dopo il falsetto. Però subito dopo aver cantato il brano all’Ariston, la vedova Modugno mi ha chiamato per farmi i complimenti». Una promozione sul campo.
La seconda dopo quella data dal pubblico quando un compositore neanche fighetto come lui ha iniziato a farsi conoscere con l’indie pop della Fame di Camilla (suonarono anche con gli Aerosmith a un Heineken Jammin’ Festival e dopo lo scioglimento sono rimasti fratelli). Poi Ermal Meta, capelli neri su di un volto irregolare ed espressivo, ha iniziato a comporre per altri. Canzoni belle. Spesso molto belle come Pronto a correre di Mengoni oppure Occhi profondi di Emma, oltre ad altri brani per Francesco Renga, Annalisa, Giusy Ferreri, Patty Pravo e Lorenzo Fragola. Insomma quasi tutto l’arco costituzionale del pop. Poi la decisione: mettersi in proprio. Diventare solista.
Mica facile per un italoalbanese che sa scrivere testi non volatili eppure comprensibili e trovare slogan che non affondano nella palude dei social. Ora che si sente «cittadino del mondo», Ermal Meta quest’anno ha fatto l’upgrade a Sanremo.
L’anno scorso era tra le Nuove Proposte e non ha vinto però ha convinto. Quest’anno è tra i Big e potrebbe vincere, seguendo passo dopo passo quella che è la favola più bella del pop: partire da zero e arrivare a cento con le proprie forze. In fondo, è Vietato morire, proprio come il suo brano in gara (e del disco appena uscito). «Dedicherei la vittoria a chi mi ha insegnato a disobbedire e a chi pretendeva di indicarmi una strada senza sapere neppure chi fossi. Tutte le volte che lo hanno detto, io ho fatto il contrario». Ciò che colpisce di Ermal Meta è la determinata pacatezza delle sue parole. Sembra serio anche quando scherza. E ride sempre con un perché, non a caso. E soprattutto ha le idee chiare, molto più di tanti altri. Ad esempio: «Non capisco perché qui in Italia si guardi musicalmente troppo all’estero. C’è troppa ammirazione per codici musicali che non sono nostri (dice proprio nostri – ndr) e che potremmo evitare».
È un invito a volersi più bene: «Un po’ di protezionismo aiuterebbe anche a fare musica migliore». Quando lo dice, non c’è un filo di retorica nella sua voce, e neppure di ansia nonostante stia correndo a destra e sinistra nei meandri dell’Ariston come se lui, qui dentro, ci fosse proprio nato.ilgiornale.it